Il nuovo giorno è arrivato.
Credo.
L’indolenza di questo inverno ha qualcosa di strano. Le giornate sembrano allungarsi, ma le albe ritrarsi.
È un balletto strano da guardare, per me, spettatrice delle 5:12, in attesa di un regionale che ferma in tutte le stazioni.
Sembra quasi che ci sia una combutta silente. Un dissentire profondo tra il nuovo ed il vecchio, tra l’iniziare ancora o restare sui propri passi.
Così il sole allunga, e l’alba ribatte. Arriva sempre tardi. Tra le mie ciglia assonnate o pensierose, o spalancate a coglierla
Non lo so, no.
Non so quante albe ho visto negli ultimi anni. Non le ho contate, non ho voluto, non ho potuto, non ho saputo.
Io, purtroppo, vado costantemente avanti. Sono un motore inerziale. Ho iniziato. Non smetto. Mi abbatto, mi sbatto, arrabatto, ma non smetto. Non è la mia natura. Non è il mio vivere.
Io non aspetto.
Ho spesso chiesto a me stessa se questa continua lotta sia davvero necessaria, sia così importante, sia così fondamentale.
Non ne ho idea. Ma (e so che non si inizia una frase con un “ma”), non so fare altro.
Ciò che spiace è che agli altri non piace. Bel gioco di parole, no? Quasi un rima baciata. Solo che è una rima imperfetta. Sia letteralmente parlando, sia umanamente facendolo.
L’eterna insoddisfatta. Così mi chiamano. Così mi percepiscono, così mi vedono.
E forse così sono.
Non ne ho idea. Intanto sono. Ci sono, lotto, piango, rido e scrivo ancora. O forse di nuovo.
Ho fatto poi quel dolce, ieri. Come sia non ne ho idea, ma è incantevole a guardarlo.
Magari ad aprirlo sarà il peggiore dei vasi di Pandora. Intanto ci ho provato.
Ho sfidato me stessa ed in un certo qual modo, portato a casa la partita.
Oggi inizia un nuovo giorno.
Il fine settimana è vicino. E il fine settimana, per una come me, è il peggiore dei mali che possano esistere.
Ho capito, o almeno mi son convinta di averlo fatto, che devo ricostruire una facciata sfaccettata. Come quei ninnoli pieni di specchi, da quattro soldi. Mi ricordano Dj time. O le auto ferme ad aspettare in coda per il mare. C’era sempre qualcuno che ne avesse una, appesa al retrovisore, di quelle misere palline.
Mille specchietti segmentati tra di loro. Così che ognuno possa guardare quello che vuole vedere. Se stesso e la proiezione che di sè fa su di te.
Fa nulla se mi si spacca il cuore a non essere me stessa. Io ho le mie righe, i miei sogni, i miei bambini. Le mie notti bianche. E le torte che (quasi sicuramente) non riescono.
Un moto perpetuo non si ferma con il tempo. E se il tempo è sospeso è una bolla che gira e una botta che arriva. Ciclicamente ciclica.
Mi manca il prof. Mi manca il maestro. Mi manca perché sapeva capire.
Ma anche lui non c’è più. Devo andare avanti. E devo imparare a farlo recitando un ruolo che sia ciò che vogliono. Tante maschere e pochi volti, diceva Pirandello. Voglio essere una maschera. Di quelle sorridenti.
Alle persone piace. Da morire. Oh se piace. Non interrogarsi su nulla, vomitarti addosso i pensieri e credere che tu sia felice.
Metto le mani in tasca, incasso la testa e faccio partire un brano.
Mentalmente ripasso la lezione: i mesi dell’anno e la loro scrittura abbreviata.
Sará una bella lezione, lo so. Passeremo un sacco di tempo a discutere di “quanti quadratini” contare per fare la tabella e del perché non usino il righello o, santo Iddio, ancora la matita in seconda….
Io, tra i banchi, mi muovo come una libellula. Cade la maschera. Mi sento felice, anche perché il bambino sa. Ti guarda e sa. Chi sei e cosa hai dentro.
Puoi dare te stessa e dire cosa pensi. Davvero, però, chè loro la falsità non la reggono.
E lo puoi fare sempre. Anche elencando i mesi dell’anno o preparando una tabella.
Ieri sera accarezzavo le verifiche di geografia. È una bella classe. Dietro le loro imperfezioni, gli strafalcioni, gli “orrori” , come li chiamava la mia maestra, ci leggi tutto il loro mondo e sapresti anche dire se in quel momento, in cui hanno prodotto quell’errore, stessero, che so, bisticciando con qualcuno, guardando la tv o sbocconcellando un dolce.
L’alba tarda ancora. Il treno è già partito. Scivola nella notte e taglia il mio cuore di donna rimasta bambina.
Vado tra i miei pari. No. Non i colleghi. I miei bambini. Vado a sentirmi una di loro e ad ascoltare una nuova lezione. Chè di lezioni i bimbi, si sa, te ne danno (fanno) una ogni giorno.
Maestra Nazaria