5:12

Il nuovo giorno è arrivato.

Credo.

L’indolenza di questo inverno ha qualcosa di strano. Le giornate sembrano allungarsi, ma le albe ritrarsi.

È un balletto strano da guardare, per me, spettatrice delle 5:12, in attesa di un regionale che ferma in tutte le stazioni.

Sembra quasi che ci sia una combutta silente. Un dissentire profondo tra il nuovo ed il vecchio, tra l’iniziare ancora o restare sui propri passi.

Così il sole allunga, e l’alba ribatte. Arriva sempre tardi. Tra le mie ciglia assonnate o pensierose, o spalancate a coglierla

Non lo so, no.

Non so quante albe ho visto negli ultimi anni. Non le ho contate, non ho voluto, non ho potuto, non ho saputo.

Io, purtroppo, vado costantemente avanti. Sono un motore inerziale. Ho iniziato. Non smetto. Mi abbatto, mi sbatto, arrabatto, ma non smetto. Non è la mia natura. Non è il mio vivere.

Io non aspetto.

Ho spesso chiesto a me stessa se questa continua lotta sia davvero necessaria, sia così importante, sia così fondamentale.

Non ne ho idea. Ma (e so che non si inizia una frase con un “ma”), non so fare altro.

Ciò che spiace è che agli altri non piace. Bel gioco di parole, no? Quasi un rima baciata. Solo che è una rima imperfetta. Sia letteralmente parlando, sia umanamente facendolo.

L’eterna insoddisfatta. Così mi chiamano. Così mi percepiscono, così mi vedono.

E forse così sono.

Non ne ho idea. Intanto sono. Ci sono, lotto, piango, rido e scrivo ancora. O forse di nuovo.

Ho fatto poi quel dolce, ieri. Come sia non ne ho idea, ma è incantevole a guardarlo.

Magari ad aprirlo sarà il peggiore dei vasi di Pandora. Intanto ci ho provato.

Ho sfidato me stessa ed in un certo qual modo, portato a casa la partita.

Oggi inizia un nuovo giorno.

Il fine settimana è vicino. E il fine settimana, per una come me, è il peggiore dei mali che possano esistere.

Ho capito, o almeno mi son convinta di averlo fatto, che devo ricostruire una facciata sfaccettata. Come quei ninnoli pieni di specchi, da quattro soldi. Mi ricordano Dj time. O le auto ferme ad aspettare in coda per il mare. C’era sempre qualcuno che ne avesse una, appesa al retrovisore, di quelle misere palline.

Mille specchietti segmentati tra di loro. Così che ognuno possa guardare quello che vuole vedere. Se stesso e la proiezione che di sè fa su di te.

Fa nulla se mi si spacca il cuore a non essere me stessa. Io ho le mie righe, i miei sogni, i miei bambini. Le mie notti bianche. E le torte che (quasi sicuramente) non riescono.

Un moto perpetuo non si ferma con il tempo. E se il tempo è sospeso è una bolla che gira e una botta che arriva. Ciclicamente ciclica.

Mi manca il prof. Mi manca il maestro. Mi manca perché sapeva capire.

Ma anche lui non c’è più. Devo andare avanti. E devo imparare a farlo recitando un ruolo che sia ciò che vogliono. Tante maschere e pochi volti, diceva Pirandello. Voglio essere una maschera. Di quelle sorridenti.

Alle persone piace. Da morire. Oh se piace. Non interrogarsi su nulla, vomitarti addosso i pensieri e credere che tu sia felice.

Metto le mani in tasca, incasso la testa e faccio partire un brano.

Mentalmente ripasso la lezione: i mesi dell’anno e la loro scrittura abbreviata.

Sará una bella lezione, lo so. Passeremo un sacco di tempo a discutere di “quanti quadratini” contare per fare la tabella e del perché non usino il righello o, santo Iddio, ancora la matita in seconda….

Io, tra i banchi, mi muovo come una libellula. Cade la maschera. Mi sento felice, anche perché il bambino sa. Ti guarda e sa. Chi sei e cosa hai dentro.

Puoi dare te stessa e dire cosa pensi. Davvero, però, chè loro la falsità non la reggono.

E lo puoi fare sempre. Anche elencando i mesi dell’anno o preparando una tabella.

Ieri sera accarezzavo le verifiche di geografia. È una bella classe. Dietro le loro imperfezioni, gli strafalcioni, gli “orrori” , come li chiamava la mia maestra, ci leggi tutto il loro mondo e sapresti anche dire se in quel momento, in cui hanno prodotto quell’errore, stessero, che so, bisticciando con qualcuno, guardando la tv o sbocconcellando un dolce.

L’alba tarda ancora. Il treno è già partito. Scivola nella notte e taglia il mio cuore di donna rimasta bambina.

Vado tra i miei pari. No. Non i colleghi. I miei bambini. Vado a sentirmi una di loro e ad ascoltare una nuova lezione. Chè di lezioni i bimbi, si sa, te ne danno (fanno) una ogni giorno.

Maestra Nazaria

Vento che sa di tramontana….

Inizio a scrivere che sono ancora in macchina.

Troppo codarda per affrontare il vento gelido della mattina.

Taglierà la faccia. Lo sento. Lo percepisco. Lo so.

È un vento che sa di tramontana.

Eppure è un’alba. O lo sarà di qui a breve. La notte ancora incombe.

Lui spira forte.

Mi ha sfidata beffarda tutta la notte. La sveglia segnava l’una, o giù di lì. Il sonno aveva già abbandonato il mio comodo giaciglio, per andarsene a spasso nel mondo coi miei sogni e il mio corpo spossato.

Piove. Secchi d’acqua vomitati giù dal cielo.

Un binario in attesa di un treno.

In un posto così lontano che non ne conoscevo l’esistenza. 6 ore di viaggio per 5 ore di lavoro. 4.45 oggi. Per essere esatti.

Poi un autobus. Poi un altro.

Nel loro letto i miei pulcini trepidanti nemmeno hanno sentito il mio essere andata via. Ho respirato il loro odore. Sta cambiando, negli anni, ma resta sempre quella parte di me che andrà a spasso nel mondo. Un profumo noto. Che riconoscerei tra mille.

Non se ne sono accorti, no.

Troppo veloce il tutto.

Troppo profondo il loro sonno.

Stamattina quando incontrerò il mare, se un barlume di luce avrà increspato la notte, sarà tutto un turbinio di onde. Spero di riuscire ad intravedere, nel buio, la carta crespa bianca che si infrange sugli scogli.

Allerta meteo, la chiamano.

Freddo è il suo nome.

La coda della merla si insinua in un febbraio acerbo. Il freddo non vuole abbandonare la sua comoda poltrona e sbeffeggia il mondo con i suoi colpi di coda e i turbinii di pioggia e vento nell’aria.

Ma nulla scalfisce un sogno.

Vado.

Dove vado? Ad insegnare.

La paga? non ve la nomino nemmeno. Non avrebbe senso. Sarebbe irrisoria ed offensiva per chi si è speso in anni di studio. E due lauree magistrali.

Ma questa mattina entro in seconda.

Primaria.

Si.

Avete presente?

Piccoli bimbi in piccoli grembiuli, in piccoli banchi.

Una piccola fantastica seconda, dove facciamo fatica a contare i positivi e i negativi, non sappiamo mai chi sarà di qui o di là dallo schermo, e dove, questa mattina dovremo imparare la comprensione del testo. “L’orco buono” si intitola la storia.

Chissà quante risatine sommesse e quanti noooo corali al “prendete il diario: domande per casa”.

Ma….

Avrò tanto piccole voci intorno. Tante querule richieste di aiuto. Tanti “maestra” a risuonare nell’aria.

Maestra.

Che, come dico sempre io, dopo l’appellativo “mamma” è il più bello dei nomi.

Così viaggio.

Alla ricerca del mio sogno.

40 anni suonati, con una stanchezza nelle ossa che fa tremare il cuore.

Ma viaggio, perché il contraccolpo sta nel “maestra”che mi vado a pigliare. Si. Pigliare. È mio, di diritto. Un castello di carte che prima o poi cementificherà. Un castello di piccoli attimi che danno un senso alla vita. La mia vita.

Quando torno a casa? Non lo so. Dipende dalla fortuna. Per un minuto potrei esservi alle 16. Per un altro alle 17. In tutto questo mi mancano i bimbi, i miei, ma spero, con il tempo, che capiscano che la mamma ha fatto questo anche per loro.

Tira un vento che sa di maestrale. L’aria taglia il viso. Le mani sono gelide sotto i guanti. Mascherine che appannano gli occhiali insonnoliti, fanno da compagnia al mio viaggio. Anche il treno sembra aver sonno.

Maestra, buongiorno.

Aspetto solo quello.

Poi la giornata si srotolerà, per morire e riniziare, ancora, ancora e ancora, fino ad albe più clementi, nella nascosta primavera.

Maestra Nazaria.

Buon compleanno, mio caro Blog!

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24.07.14

-Pronto Zazzi? Oggi stavo sistemando casa ed ho trovato una scatola con tutte le tue lettere ed i tuoi bigliettini.

-Ah, sii? (tono di voce con più Bifidus di un bancale di Activia). Embè? Che vuoi, Melà? Oggi non c’ho voglia.

-Embè che, Zazzi? Sei così brava. Anche le mie amiche lo dicono. Si commuovono tutti e si emozionano tutti. Perché non scrivi un libro? Ti prego. O apri un blog, ci metti dentro tutto quello che hai. Nel cuore e nella mente. Magari va un po’ meglio. Magari.

-Mel, ti devo lasciare. Non ho tempo. Lasciami stare.

QUALCHE GIORNO DOPO…

27.07.14

-Allora Nazà, senti: ti ho aperto il blog, su wordpress, che è tanto cool e fa pure chic.

-Melà?

-Eh..

-Chiiiiè? Ch’i fatt? Che stì ddi? I nin ti capisc!!!! Lingua bella, lingua. Mica siamo tutti poliglotti come te.

….di li a qualche istante (il tempo che io comprendessi di avere un blog) si è scatenato l’inferno….

-Nazariaamammaaaaaaaaaa, ooooooddio quanto sono contenta, ma chessoddisfazioneeeeeeee, mia figlia è una scrittrice. Mo ti devo lasciare che lo devo dire a tutto l’ufficio, poi al condominio, poi passo al supermercato, alle poste…

-Mamma? Mammaaaa?

-Al tabaccaio? Ah, si beh, pure al fruttivendolo….

-Mammaaa! Oh Mà! NON SONO UNA SCRITTRICE, Mà, ho solo un blog.

-Scusa, Nazariaamamma (voce truce)

-Eh…

-Su sto coso che fai? Scrivi?

-Si

-Oh. Geeente, venite, accorrete, annunciazione, annunciazione, mia figlia è una scrittrice.

-DDDIO BBONO Mà, sei senza speranza.


-Nazariaanonninasua che tu mi sembri Giovanni Passaguai e cuorp r quigl riavur (corpo di quel demonio n.d.r.) tutt’a te, tutt’a  te, tutt’a teeeeee (giuro su Dio fa così), mi ha detto tua mamma che t’è venuto il BLOK. Ma le verdure le mangi? Se torni a casa ti faccio pane e pomodoro e passa tutto, a nonnasua, che io lo so che da quando stai sola non mangi, t pozzan accir..

– tu tu tu tu tu…


-Ai sensi e per gli effetti dell’articolo bla, bla, bla, del codice bla, bla, bla, in base alla legge sul trattamento dei dati personali bla, bla, bla, la invito e diffido a diffondere notizie mendaci NONCHE’TENDENZIOSE sulla mia memmmmedesima persona.

-(Occhi al cielo, rotazione di 360°intorno all’orbita e di nuovo occhi al cielo) Avvocato buonasera! Come la va?

-Nazaria, senti, non scherziamo!. Se ti serve assistenza legale, lo sai: Avvocato Di Biase Mariangela, pronta a morire per Voi sotto il peso di mille denunce.

-Voi? Voi chi, Marià? Ma che ti fumi?

-Nazaria! E’ avvocatese, ignorante di una sorella che non sei altro.

-Ah, già “avvocatese”. Comunque che assistenza legale e legale, Marià, è un blog.

-Si, lo so, ma che cambia? Sempre guai puoi avere.

-Grazie eh. Grazie.


-Nazaria, sono Papà.

-Si (ma vah?) Che c’è (niente punto interrogativo. Affermazione: Che c’è).

-(Ride)

-(Mannaggiasanda mannaggia, mo ne spara una della sue)

-Mi hanno detto che stai bevendo un litro di Strega sul Campitello…

-Papà?

-Si?

-Chiudi.

TI

PREGO

CHIUDI.

-Ma l’hai capita? Campitello-Campiello, Streg…

-Papà?

-Si?

-CHIUDIIIIIIIIIIIIIII


Più o meno così (ok più “più” che “meno”) è iniziata, un anno fa, la mia avventura sul blog.

La partenza non è stata delle migliori. Non ho ben capito come farlo funzionare (temo di avere ancora qualche dubbio) e non saprei dire ancora oggi come si facciano a trovare followers o a farsi trovare.

Diciamo molto semplicemente che uso questo contenitore di emozioni esattamente come mia nonna utilizza il suo cellulare. Due tasti (like e rispondi) e tanta emozione ogni volta che trovo una notifica (lei ancora non sa chi la chiama, nonostante abbia nel cellulare solo 5 numeri, ma è sempre felice, io ogni volta che vedo una notifica riesco a sentirmi speciale).

Quello appena trascorso è  stato un anno non semplice e so che spesso tutto questo si è riverberato nelle righe che vi ho, talvolta impunemente, propinato.

E’ che io, qui dentro, ho scoperto un mondo.

Un meraviglioso piccolo mondo. Fatto di storie, di esperienze comuni.

Fatto di parole.

Ed io sono parole, come lo siete voi, come lo sono, in fondo, tutti. Anche se pochi hanno il coraggio di dirlo.

Così spesso, nel corso di giornate interminabili o in momenti che del buio hanno la connotazione più stretta, mi trovo a lasciare andare i pensieri, a briglia sciolta, nell’immensa distesa della mia mente, sapendo di poterli incanalare, poi, in qualcosa che condividerò con voi.

Nulla sostituisce un dialogo vero. Lo so. Lo so io, lo sapete voi.  Ma in questo spazio ci siamo davvero con noi stessi, con la parte più profonda, con quello che difficilmente metteremmo in mostra nel quotidiano che ci rappresenta.

Quindi grazie. Grazie di cuore.

Per ogni singolo follower, like, commento, lettura.

E no.

Non sto lì a guardare quanti siete.

162 (beh, si, dai ammetto, vi controllo) come 1, 10000 visite come 10 (oh, diamine, l’ego ce l’ho pure io e anche se ce lo so che non siete molti a me sembrate qualcosa di immenso e non mi par vero), vi voglio bene A tutti. Ma proprio A tutti, locuzione di moto A luogo, perché vorrei poter venire da ognuno di voi, abbracciarvi e ringraziarvi.

Coltivo un sogno, nella vita, che è quello di mettere su carta le mie emozioni. E voi siete il mio sogno che prende forma.

Ho pensato, in un primo momento, in questo auto-celebrativo post che in realtà è un ringraziamento a voialtri, di citare i miei blogger preferiti.

Ma poi mi son detta: diamine devo creare 162 link???? No, nun c’ha pozz fa.

Certo c’è qualcuno di più caro, o vicino, ma quel qualcuno lo sa già. Come in ogni buona famiglia o gruppo di appartenenza ci sono dei cluster ristretti, all’interno dei quali ci si intende di più, ci si capisce al volo.

Sarebbe carino, un giorno l’altro, organizzare una cena tra blogger, come millantava, in uno dei suoi strambi (ma geniali) post uno di voi (ipotesi di cena davvero esilarante, matto!) magari da organizzare in una città lontana (si, cara, TU non potevi mancare), ma, ancora una volta, torno a dire che non saprei e non potrei scegliere chi ringraziare e chi no. Chi più e chi meno.

Come ogni buon compleanno, però, un regalo arriva sempre.

Il mio è di qualche giorno fa.

Orario d’ufficio. Intravedo una notifica. Nel mentre urlavo al telefono con una signora ( Signora scriva: 20156, Milano. lei: con 2 ee? – no word please) nel vano tentativo di farmi comprendere.

Durante la (meritata) pausa caffè, apro la pagina di WordPress e trovo, impacchettato di tutto punto, il mio regalo più bello:

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Oh mama (cit. Jhonny Bravo – Cartoonito – madonna come so cadere in basso certe volte). Nazaria (si, quella, proprio io, proprio quella tipa lì) c’ha una ammiratrice.

Allora forse quest’anno non è proprio da buttare.

Mi sono fatta una promessa, da bambina. Una sola.

E me la sono fatta (credo, anzi ne sono certa) durante una degenza in un ospedale di Ancona. Era un martedì pomeriggio. Il tempo era uggioso. Il mare si stagliava come un’unica distesa grigia all’orizzonte.

Le mamme erano tutte raccolte nella saletta della televisione.

Noi ragazzini (venivamo da tutte le parti di Italia, ognuno con i suoi problemi) eravamo saliti all’ultimo piano dell’ospedale, in barba alle difficoltà logistiche (se ci ripenso mi vien quasi da ridere) ed alle urla del primario e delle infermiere (che però predisponevano i ricoveri mensili in modo che potessimo stare sempre insieme).

Eravamo piccoli.

Sette anni, io, massimo dieci, gli altri, che si era in un ospedale pediatrico.

Erano gli anni in cui ci si scambiava l’indirizzo e si inviavano lettere affidando i pensieri al postino. Non si immaginava nemmeno, tutto questo.

Eravamo seduti (oddio non vi sto a raccontar come che avevamo, in 3, più gesso di una fabbrica che lo produce) a guardar fuori.

Avevamo quella strana capacità di ridere che solo i bambini in certe situazioni riescono a trovare.

Michele (che c’aveva un po’ una “cotta” per me) disquisiva con Daniele (che “nemmanco” scherzava – ma il mio pigiama rosa, le stecche, il gesso ed il resto mi rendevano irreeeeeesistibile) di chi ricevesse, da me, le lettere più belle.

In tutto questo Giovanni, piccolo grassoccio ragazzetto della provincia, con un serio problema di salute, mi disse: “Nazaria falli tacere, scrivi un libro, così se lo leggono e ci fanno parlare. Tanto non ti mancano, le parole”.

Abbiamo riso. Tutti. E tanto.

Ma io ho detto si. E son promesse, quelle, che non puoi dimenticare di mantenere.

A tutti quelli che, attraversando la mia vita, mi hanno detto, a loro modo, di aver tratto piacere da una mia parola va, oggi, il più dolce dei grazie.

Il mio libro è gia qui. Siete voi. Sono i vostri occhi, le vostre parole, il tempo che mi dedicate.

La sensazione che solo voi sapete darmi, di avere un preciso posto nel mondo.

E il mio mondo è lo scaffale di una libreria.

Ed io sono, con voi, in vetta alle classifiche delle vendite annuali.

Vi abbraccio tutti.

Grazie.

Nazaria

Speriamo

Speriamo solo che ci sia il sole.

Sempre.
Anche se nascosto.
La timida danza di un abbraccio.
Sempre.
Anche se solo “pensato”.
La dolce malìa di un sorriso.
Sempre.
Anche se celato dietro una preoccupazione.
Il rumore di un tacco infilato saltellando sulla porta, mentre le amiche ti aspettano, o il tuo lui, o chi speri lo diventerà.
Un vestito scelto per una occasione.
Una tuta sdrucita messa su per piangersi addosso.
Una cena per ridere ed una per piangere.
Un orecchino che si perde, una calza smagliata.
Una storta sui tacchi.
Una risata disconnessa.
Una vita da vivere.
Ecco speriamo solo che ci sia questo.
Sempre.
Una vita da vivere.
Senza un giorno che lo certifichi.
Speriamo di essere donne.
Sempre.
Anche quando non ce lo permettono.

Un sogno di color arancione

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La notte l’aveva sorpresa così rapidamente,
mente era intenta a fare altro,
che non le era stato possibile dare un ultimo saluto al sole.
Domani, si disse, attendo domani.
E si erano avvicendate le ore.
Lotte di sogni e fantasmi nel letto.
Cuore in subbuglio e mente in disordine.
Ogni notte.
Ogni santissima notte.
Da farci l’abitudine, da restare stupiti, semmai, del contrario.
E poi piano, dalla finestra, tra le lamelle delle persiane, il primo chiarore.
Come una mano che ti viene a cercare.
Come un abbraccio o una coperta poggiata.
E la semplicità e la dolcezza di scivolare in un breve sonno, di quelli soffici, leggeri, di quelli che senti nel cuore che stai per svegliarti, ma infili la testa sotto il cuscino per riprendere il film del tuo sogno.
Un sogno di colore arancione.

dentro i miei occhi

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scorreva, sotto di lei, una vasta distesa di nuvole…
Un magma di pensieri le attraversava la mente, mentre l’aereo percorreva quella distesa bianca e blu senza nessun apparente punto di riferimento.
Il volo era fluido, liscio, come senza tempo.
Nessuno scossone a riportarla al presente, ad interrompere i pensieri.
A fermarli, almeno per un istante.
Ciò che la lasciava stupita era l’assenza di rumori, intorno.
Se non fosse stato per quel ronzio incessante dei motori e il chiacchiericcio di certe giunture scosse dalla pressione esterna, avrebbe potuto pensare di essere sola.
Ma non si é mai soli, con i propri pensieri.
Quelli non ti abbandonano mai, tarlano e mangiano, nemmeno fossero ad un banchetto nuziale.
Impossibile non pensare a lui.
Alle sue mani, al suo sorriso, alla sua bocca.
Impensabile non sentire sulla pelle le mani calde, affamate, esperte.
I ricordi hanno il brutto vizio di arrivare tutti insieme, a fiotti, con un fiume di sangue caldo che ti irrompe nelle vene e sale ai lobi delle orecchie.
Arrivano quando meno te l’aspetti, a spezzarti il sorriso, a storcere l’immagine in una foto.
E sono pugni.
Non ricordava quando le era entrato sotto la pelle, non lo aveva saputo, prima, nè era riuscita a ricordarlo, poi.
Certe persone ti entrano dentro che nemmeno te ne accorgi, ti si installano nell’anima e funzionano in background, che tu lo voglia o meno.
E non esiste nessuna funzione per disattivare gli aggiornamenti.
Lui era parole, pensieri, suoni. Un particolare rumore del respiro, lo scatto di una gamba la notte, nel letto.
Eppure, pensó, erano rare le notti in cui avevano condiviso una intimità che potesse superare l’alba e che inevitabilmente li rigettava in un quotidiano dove non esisteva nessun noi, dove non c’era localizzazione, condivisione comune.
Quelle notti lei le ricordava, le ripercorreva, le analizzava, anche se alle volte, proprio come ora, mentre attraversava questo cielo, pensava che fossero loro a ricordarsi di lei e ad andare a cercarla, negli anfratti del suo quotidiano, tra pillole di vita dove non avevano nulla da condividere.
Pensó che in fondo, con lui, era sempre tutto un po’ fuori dal tempo, come questo volo, senza rumori precisi, qualcosa che scivola veloce. La sua casa, ad esempio, la particolare luce, i suoni sconosciuti, gli odori che la attraversavano.
Era un diverso in cui si sentiva a suo agio.
Quello che la scandalizzava era la precarietà di quel vivere, il disordine, il moltiplicarsi di orpelli e ammennicoli inutili, che pure le piaceva.
A lei. A lei così legata al suo mondo ordinario, alle sue scatole ordinate alfabeticamente, alle cose che hanno ” sempre e comunque lo stesso identico posto”
Eppure, si disse, ci si ritrovava.
Con una sua maglietta addosso, scalza, in giro per una zona non sua, dove non controllava, dove non era, dove si lasciava portare.
Le pareva sempre di esplorare qualcosa di nuovo, di conoscerlo un pochino meglio, man mano che il disordine si dispiegava c’era un nuovo tassello da aggiungere.
Eppure, nonostante la sensazione di calore che la avvolgeva anche adesso che i pensieri la stavano attraversando, non lo conosceva mai del tutto. Era, quello tra loro, un momento metafisico, mai presente, mai reale, sempre ripiegato tra un qui, un forse e un dove.
Non c’era programma per quei loro incontri, non lo stabilivano, lo facevano capitare, arrancando tra scuse varie ed improbabili giustificazioni che poi non venivano mai approfondite nelle loro rare conversazioni. Si sapevano da tanto, questo le diceva lui, e quindi non c’era bisogno di prendersi in giro, di creare articolazioni per quelle mezze bugie.
Pensò che le bastava viverli, quei momenti. Prenderli per quello che erano.
Rari momenti di pura essenza.
Eppure c’era qualcosa stanotte , nel cielo che si andava facendo nero, tra quella distesa di silenzio, che le tornava nella mente e la feriva, come la lama di un coltello affilato.
Qualcosa che rompeva lo schema creato, il rigido compartimento nel quale si muovevano e del quale credeva di conoscere tutte le mosse giuste per non farsi male.
Le tornó in mente, cosí, quasi all’improvviso, che quella mattina, allo specchio, mentre si truccava per andare via, aveva notato qualcosa, una se stessa diversa, malinconica eppure luminosa, che l’aveva guardata ansiosa, come a chiederle di restare, tra quelle mani, tra quelle carte, in quel precario disordine in cui si riconosceva e si smarriva.
Si disse che era stato come vedersi per un momento. Un lampo improvviso, che le aveva rotto il respiro.
Nel ripensarci ora ricordava di essersi voltata in fretta, di aver raccolto le sue cose e dato uno sguardo alla luce polverosa che filtrava dalla finestra.
Aveva spostato qualcosa, con studiata incuria, rassettato pochi, banali, inutili oggetti , attenta a non invadere lo spazio eppure cercando di lasciare un piccolo segno, un impercettibile alone di se che lui avrebbe ritrovato, la sera e che avrebbe percepito senza nemmeno accorgersene.
Si era rapidamente chiusa la porta alle spalle, un gesto secco, duro, e il rumore della porta che si abbatteva sui cardini le aveva ferito le orecchie. Ripensò alla precipitosa corsa per le scale, rigida, veloce, giustificata con un volo da non poter perdere.
Ora invece, è d’un tratto, capì.
Capì perché non si era voltata e perché era corsa via. Capì che avrebbe visto se stessa fissarla con aria interrogativa. Chiederle cosa stesse facendo, chi stesse cercando di ingannare, mentre elaborava la prossima scusa per una fuga veloce verso questo tempo sospeso.
Ricordò che aveva tirato dritto, verso l’aeroporto, questo porto di cielo dove la gente si incontra senza vedersi e si innamora, si lascia, si perde per sempre o si ritrova, ed in preda ad una progressiva ansia era salita velocemente sul suo volo, aveva preso posto, iniziato tutta una serie di rituali che sperava l’avrebbero riportata alla serialitá di una vita incanalata, rigidamente costruita, ordinata, Prevedibile e poco, anzi per nulla dall’aria precaria. Aveva preso le cuffiette, il computer, il libro. Si era appoggiata la copertina sulle spalle e aveva scrupolosamente dato un’ultima controllata al meteo che l’attendeva ed alla lista mentale delle cose da fare. Imprescindibili cose da fare.
Eppure, e l’aveva sentito da subito, c’era qualcosa, in fondo, nell’anima, che era salita con lei sul quel volo. Qualcosa che urtava la superficie quieta del lago, che creava cerchi sempre più vicini e che increspavano la distesa d’acqua.
Qualcosa di inarrivabile, di sfuggevole… A tratti sgradevole. Una sensazione alla bocca dello stomaco, un disturbo dolce, un’ansia latente ed una struggevole malinconia.
L’avevano seguita quegli occhi. I suoi che si guardavano nello specchio, che la fissavano consapevoli di essersi riconosciuti in quelli di altri.
I suoi occhi si erano saputi.
Capí che era impossibile, ora, tornare. Guardó fuori dal finestrino. Non si distingueva quasi più nulla. Le ore le erano scivolate addosso come quel cielo nero. Un alito di vita le sfuggì da un tirato, amaro sorriso.
L’aereo continuò la sua dolce sfilata sulla coltre di nuvole, mentre il cielo, di un cupo viola livoroso, incombeva sulla figura argentea dell’aereo. E in quel magma di pensieri la sua anima sprofondó, leggera, in una notte dove nessuna luce avrebbe potuto, almeno presto, portarle l’alba.