To be continued… part 2!

to be continued

 LEI…

Si sporse leggermente in avanti, verso il parabrezza.

Il semaforo era ancora rosso.
Il rumore dei tergicristalli sul vetro era ipnotico, a tratti graffiante.
Non pioveva più molto, ora, ma le restava difficile interrompere il flusso dei pensieri. La musica filtrava in quello spesso strato di silenzio, come una colonna sonora che arriva in differita.
Due colpi di clacson, brevi, ravvicinati, in cui percepì la rabbia e l’urgenza di chi deve correre da qualche parte.
Nello specchietto un paio di occhi impazienti e infastiditi che vide passare in un successivo e subitaneo frammento di secondo accanto alla sua auto.
Chissà che diavolo avrà da correre.

“C’è un traffico bestiale. Che credi”, imprecò con voce malferma.
Lo vide scuotere la testa, nemmeno l’avesse sentita.
Si riscosse dal torpore, ingranò malamente la prima e spinse il piede sull’acceleratore. Le ruote slittarono sull’asfalto bagnato. La macchina si mise in moto, i pensieri tornarono.

Flusso ininterrotto.

I fanali dell’auto iniziavano a proiettare ombre lunghe sull’asfalto, la sera scendeva sempre più repentina.

Un’altra estate era andata.

…..LUI 

“Possibile'” si disse, “possibile che si debba sempre stare in fila due ore per un maledettissimo semaforo e per due gocce di pioggia?”

“E chi è sta cretina qua, ma che fa, che guarda, mio dio che rabbia, è un semaforo, pronto? Non l’hai mai visto? E dai, muoviti,che non ci stanno le stelle nel cielo, e non ti stanno nemmeno a guardare, anche se il libro dice lo stesso. Ma che diavolo fai. È verde, non lo vedi? Verde. Sai che significa? Prima, seconda, acceleratore e guarda come ti passo, lumaca”.

Soddisfatto si rimise nel traffico.
Nello specchietto “capelli castani” aveva appena ingranato la prima.
Scosse la testa.
Lo stavano aspettando in ufficio.

Ancora una maledettissima riunione, ancora per quel dannato accordo.

Ma che si fottessero tutti per quell’accordo.

Era deciso da tempo, perché diavolo bisognasse perderne altro a firmare scartoffie proprio non lo capiva.
A quell’ora, poi.

#2

LEI..

La sera scese repentina e d’un tratto, senza che si fosse resa conto di avere ancora una volta perso tempo in pensieri circolari, inutili.

Fermò l’auto sotto casa, una enorme costruzione su due livelli che sarebbe bastata, da sola, ad ospitare quantomeno un paio di quei ridondanti nuclei familiari, con mogli un po’ trascurate e figli e tagliaerba nei garage.

La progettualità che si nascondeva dietro il possesso di quella grande casa andò ad infrangersi, se non a schiantarsi, contro la coltre spessa di buio che avvolgeva i muri. Nemmeno la luna, stasera, a rischiarare il suo rientro.

Nemmeno un barlume di quella stagione che avrebbe dovuto promettere emozioni, che era arrivata con la violenza di un uragano e che, depositando le prime gocce di pioggia sull’impiantito, aveva trascinato con se cosa? “Ah si” si disse, con un sospiro che sapeva di rantolo “un progetto, un sogno, una vita”.

Prima che i pensieri tornassero ad assaltare le già precarie mura della sua esistenza, si costrinse a fare un rapido giro dell’auto, prese la borsa e con passo deciso fece risuonare i suoi passi sui tre gradini che la separavano dalla porta. Il rumore della chiave nella serratura sembrò provenirle da un mondo lontano. Ogni sera così. Ogni rientro un maledetto chiodo tra le spalle. Ogni giro di chiave la consapevolezza di una solitudine che le avrebbe buttato addosso la sua sprezzante coperta di spine.

Aprì con cautela l’uscio.

Nulla. Nemmeno un rumore.

Nel silenzio scandito dalle lancette del grande orologio si sfilò l’impermeabile, accarezzandosi le braccia a fermare un brivido e, salendo sulle spalle strette si tenne forte a se per un momento, a darsi un po’ di tepore. Appoggiando la mano sinistra alla piccola madia messa di fianco all’ingresso, si piegò lentamente e delicatamente per sfilare i tacchi. Il leggero movimento le provocò un dolore lancinante. Abbagliante. Reggendosi a stento, lasciò cadere la scarpa, che risuonò con eco sostenuto nella casa vuota e si portò la mano sulla bocca, soffocando un grido. L’immagine grottesca e sbilanciata di una donna in equilibrio su un tacco solo la sbeffeggiava dallo specchio che troneggiava sulla madia. Ricacciando indietro un bolo di lacrime e fiele si costrinse ad alzare le spalle, scalciò la scarpa rimasta e, a piedi nudi salì al piano di sopra per raggiungere la camera.

…LUI

Entrò a passi larghi e spavaldi nell’edificio.
“Salve, Sara”.
“Buonasera  signore, la aspettano”.
“Non avevo dubbi, il traffico, la pioggia e i soliti idioti ai semafori. Per favore filtra le chiamate e cerchiamo di essere rapidi. I contratti sono già pronti?”
“Si, sono già stati distribuiti. Ci sarà solo da decidere chi seguirà la parte organizzativa, ma ho redatto una lista di possibili aziende partner. La trova nella sua cartellina”.
“Perfetto Sara. Ineccepibile”.
La donna sorrise.
Fece il suo ingresso nella sala riunioni. Le solite facce annoiate, imbardate in abiti di sartoria. Entrò senza quasi fare rumore, per lui era sempre impagabile l’attimo in cui si accorgevano della sua presenza e si fingevano indaffarati e d interessati.
“Branco di inetti arrivisti”, pensò, “vorrebbero tutti stare comodamente in poltrona nelle loro case, ora, ma fanno finta che l’unica cosa che gli interessa sia questo dannato contratto”.
Ci avevano lavorato un anno.

Era apparso chiaro fin da subito che si trattava di un grosso affare, un modo per affermarsi e per lanciare la sua azienda.

Figlio di gente comune, così amava definirsi.
Sua madre era stata maestra da tempo immemore nella scuola del paese e suo padre era addetto all’anagrafe del piccolo comune dove era nato, vissuto e cresciuto.
Aveva sempre sospettato che gli avessero affidato quel ruolo perché li conosceva davvero tutti, lui, gli abitanti della sua città, senza la necessità di scartabellare nel piccolo e polveroso archivio, alle sue spalle. Ricordava nascite e decessi e quei pochi matrimoni che avevano colorato e tentato di mantenere vivo quel piccolo agglomerato umano.
Due file di case disordinate che si affacciavano su una strada assolata. Che fosse estate o inverno, la larghezza della carreggiata non permetteva a quei quattro mattoni sparsi di offuscare la luce.
Si conoscevano tutti, in paese. L’avevano visto crescere, il figlio della maestra e dell’impiegato, quello che avrebbe fatto carriera, che avrebbe riscattato i sacrifici dei genitori e dell’intera città.
Le cose non erano mai particolarmente cambiate a Rock City. Il progresso era arrivato, ma la città sembrava una piccola enclave nella modernità. Un cinema, il distributore di preservativi, un wallmart.
Piccoli baluardi di una modernità che non aveva intaccato i panni stesi ad asciugare sulle corde a favor di vento, le sedie appoggiate ai muri stanchi, pronte a raccogliere le confidenze della sera ed i cenni di saluto, quelli muti, che solo la conoscenza che viene da generazioni può comprendere.
Il percorso non era stato facile, ma nemmeno di quelli in salita, impervi. A casa si respirava un sorriso tenue di fondo, i ruolo determinati, scanditi. In cucina, sua madre, per i lavoretti della domenica, per i ” grandi” discorsi, per le luminarie a Natale, suo padre.
Quando ripensava alla sua casa, in Lock Street, dove ancora viveva suo padre, quello che percepiva era un silenzio diffuso. Un silenzio pacato, sereno, dove ogni cosa era al suo posto, dove gli sguardi si incastravano serenamente, e le parole avevano il giusto ritmo. Aveva sempre rimpianto il fatto di non avere avuto un fratello o una sorella con cui condividere tutta quella serenità, ma non ci aveva poi fatto forse nemmeno troppo caso, preso dalla serenità di un quotidiano che non aveva troppo pretese, se non quelle del pollo con le patate nel forno, la domenica, del tacchino al ringraziamento e della spinta verso una carriera alla quale sembrava dovesse essere già predestinato da bambino.
Si riscosse dai suoi pensieri.
“Allora signori. Siamo tutti d’accordo”.

to be continued…#2

(may…be,  Always may…be)

23 pensieri su “To be continued… part 2!

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  3. Buongiorno Nazaria,

    ho appena letto il “to be continued #2”
    Ti dico la mia.
    Nulla da dire sulla forma, mi piace: scorrevole e sintetica al punto da risultare al contempo efficace.
    Per quanto concerne il contenuto…
    Mi viene in mente un’esclamazione: “rischio alto di sovrapposizione!”
    Mi spiego meglio.
    Il mio concetto di “sovrapposizione”…
    Viviamo tendenzialmente “originalità su livelli già visti”, intendo che le “nostre” storie sono sì “originali” (uniche), ma al contempo “già vissute” da altri: il mio primo bacio è originale perchè è “mio”, ma se lo descrivessi, probabilmente avrebbe similitudini con la tua esperienza del primo bacio (magari è avvenuto anche a te nella tua cameretta, e magari eravate a casa perchè facevate i compiti insieme, ecc.)
    Non sempre è così, come ho già specificato con il mio “tendenzialmente”, ma spesso lo è.
    In questi casi, trovo ci sia l’elevato rischio che un lettore come me si disinteressi a lasciarsi catturare perchè la storia“risuona” di una “ripetuta originalità” piuttosto che di una “originale ripetizione”. Non so se mi spiego.
    Nel caso in essere, noto “sovrapposizioni” con storie alla “50 sfumature di grigio” (nella introduzione dei personaggi), o alla “pretty woman” senza prostituzione, ecc.
    Inoltre, il fatto che tu abbia scelto un contesto che non credo ti appartenga (una cornice “americaneggiante”, di cui via Lock Street richiama inevitabilmente l’inquadratura), aumenta la probabilità che tu scriva per “eco di cose che hai visto“ e non per “eco di cose che hai vissuto”.
    Parlo sempre di “tendenza”, “probabilità”, non posso esserne certo, naturalmente.
    Ovviamente ognuno scrive ciò che sente, Nazaria, ci mancherebbe, non sto “giudicando” il tuo intendimento, semplicemente volevo farti partecipe delle mie riflessioni di lettore.
    Non escludo che tu possa trovare il modo di avvincermi a questa storia.
    Dalla tua c’è che è appena iniziata, per cui potresti tranquillamente sorprendermi e sarò il primo a fare ammenda e ricredermi!
    E per questo continuerò a leggere con piacere.
    Queste, le mie personalissime e opinabili riflessioni.
    Spero non ti abbiano infastidito.
    Un abbraccio
    Ciao Nazaria
    Diego

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    • Buonaserata (quasi notte) Diego!
      Intanto mi scuso per la tarda risposta. Mare con bimbi di amiche varie (ne “prendo in prestito” un po’!!!) e quindi poco tempo per rispondere.
      Comprendo (e condivido) quello che dici. Ma l’esperimento è proprio questo. Di mio scrivo (o provo, anzi provo) altro, ma questa america stupid story si racconta d’estate e mi piace provare a vedere se si sviluppa in qualcosa di diverso, considerando che potrebbe anche finire così come è iniziata!
      Vedremo.
      Un caro saluto in questa notte che torna ad esser calda dopo un accenno di frescura assopito nell’arco di una giornata.
      Nazaria

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      • Buongiorno Nazaria,
        non preoccuparti per la tarda risposta (non sei assolutamente obbligata a rispondere, nè tantomeno a rispettare un timer).
        Grazie come sempre per aver accolto le mie riflessioni; e si, concordo sulla bellezza dello sperimentare piani di racconto diversi dal nostro solito; io non intendevo assolutamente (lo specifico ancora una volta) denigrare il tuo lavoro (non mi permetterei mai!), volevo solo fornire un contributo di riflessione per confrontarmi serenamente con te.
        E sono felice che tale confronto ci sia stato.
        Ti leggo sempre con piacere.
        Un caro saluto anche a te, cara Nazaria

        Diego

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      • Buongiorno Diego.
        Mattinata calda, seguito di una notte fresca, ma insonne.
        Il post ha proprio come obiettivo quello di confrontarsi con gli altri, da qui la scelta di un racconto che, per molti versi, può essere di tutti e di nessuno.
        Per quanto riguarda il “timer” della risposta ti dò ragione anche qui. Non ve n’è, vero. Tuttavia ritengo doveroso sempre e comunque rispondere a chi si interfaccia con me. Per quelli che lo fanno a determinati livelli, mi riservo un tempo di qualità!

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