In fieri

Ci sono libri che devono ancora arrivare, nelle librerie, e alle volte si ha la fortuna di poter dare una piccola “sbirciata” in anticipo ad uno di quelli che, come in questo caso, saranno dei piccoli grandi capolavori. L’ho voluto raccontare, in modo un po’ diverso, e senza anticipare nulla, per non ricevere una ( giusta ) bacchettata dall’autore, che si è fidato del mio sguardo curioso. Sono fiera di aver letto quelle righe e certa che un giorno, quando il libro sarà sugli scaffali e io potrò ( finalmente) cambiare il nome del mio post, tornerete tutti a rileggere queste poche righe, per darmi ragione.
Perché, se non l’avete capito, io ADORO avere ragione.

Si stava aggirando, un po’ nervosa e forse a disagio, tra gli scaffali della sua solita libreria.
Fuori era caldo.
Lo rivelava, sulla sua maglietta leggera, l’alone che l’afa le aveva lasciato sotto le braccia e che stava già evaporando piano, nel ronzio del condizionatore.
I capelli, sempre sciolti, le ricadevano disordinati sulle spalle.
Li riavviò dietro le orecchie, accomodando, contemporaneamente, gli occhiali sul naso.
Intercettò lo sguardo del libraio, annoiato, che, abbandonato con quasi tutto il busto sul vecchio piano di legno, la guardava masticando stancamente una gomma e sfogliando un vecchio manoscritto liso e dalla copertina consunta.
Da lontano, lei, poteva sembrar bella. I capelli, sapientemente scuri, quasi neri, le coprivano le spalle, quasi fino alla base della schiena. Non era di quelle che definiresti magre in senso stretto, perché la vita le aveva depositato sui fianchi un leggero accenno di curve che si spingeva alle gambe e che non le regalava le caviglie sottili che avrebbe desiderato, ma aveva le spalle esili, che ti facevano venire voglia di abbracciarla stretta e di proteggerla da chissà quale drago o stregone potesse venir fuori da uno dei libri in cui usava ficcare il naso.
La suola dei suoi sandaletti pieni di strass, che facevano il paio con i braccialetti che tintinnavano sul braccio, si affacciava sotto la gonna lunga e leggera, che frusciava senza rumore nell’aria. Muovendosi sul vecchio e polveroso pavimento di legno, lasciava, con i piedi, un rintocco secco nell’aria, seguito da uno strascico lento.
Rintocco, rintocco, strascico, strascico.
Rintocco, rintocco, strascico, strascico.
Era incantata da questa musica che producevano i suoi passi sul pavimento, mentre le mani, chiuse a pugno lungo i fianchi, quando non erano impegnate a sfiorare le copertine polverose dei libri, seguivano il ritmo: mignolo, anulare, medio e indice, mignolo, anulare, medio e indice.
Il pollice, nascosto tra le dita, serviva da base di appoggio per la leggera pressione che imprimesse il ritmo dei piedi alle dita.
Era talmente assorta nel suo gioco di ragazzina, nel meccanismo senza tempo che segnava le sue meditazioni, che non sentì l’avvicinarsi del ragazzo della libreria fino a che non ebbe la percezione di un fiato caldo, sul collo.
Il ritmo, interrotto a metà, rimase sospeso nell’aria.
“Senti un po’” le disse quello, continuando a masticare la gomma con aria annoiata e stanca e guardandola con occhi vacui, annacquati, nemmeno stesse guardando il più becero dei filmetti, in tv.
“Che ti andrebbe di farmi una recensione, su un libro? È di uno che sa scrivere, ma a me non mi va proprio. E chi c’ha voglia, con questo caldo, poi” e le porse uno strano libro.
Erano, a saggiarlo dal peso, poco più di 140 pagine, in formato A4, tenute insieme da un elastico rosso.
Sulla copertina una strana figura.
Forse un albero spoglio, un ramo. Su uno sfondo bianco. Non c’era un titolo, anzi, a ben guardare, si intravedeva una spessa linea nera, che cancellava qualcosa.
Forse un ripensamento.
L’autore non era citato.
Non era sua abitudine girare i libri per cercare la “quarta di copertina” e, a maggior ragione quella volta, evitò di farlo. Sapeva che non era necessario.
La carta era di quelle che sarebbero piaciute a lei.
Giallo paglierino, con sottili venature che ne raccontavano il pregio e la cura della scelta.
Immaginava mani che sfogliano campioni di carta, che ne sfiorano i bordi e che poi, metodicamente, infilano i fogli, a piccoli gruppi, nella stampante, per evitare che anche solo uno di essi potesse andare sprecato.
Pensò che dovesse esserci un animo gentile, dietro quella scelta.
Sfogliò le pagine, rapidamente, come un prezioso ventaglio orientale e lasciò che il profumo di quelle le raccontasse qualcosa di più.
Il carattere scelto era piccolo, non c’erano interlinee importanti. L’autore non aveva voluto riempire “spazi”, far credere che avesse qualcosa da dire oltre quello che sembrava aver gettato giù in una studiata fretta, quasi guidato da una impellenza, una urgenza di raccontare che si riverberava nelle stesse parole.
Intravide, perifericamente forse, solo due leggeri segni a matita, che lasciavano intuire una calligrafia minuta, precisa, quasi quella di un monaco che si appresta a ricopiare, da chissà quale prezioso testo antico, un’anima, forse, o un contenuto importante.
Strinse il racconto al petto e il “clank” delle pagine che si piegavano, contro il suo seno inesistente le riportò alla mente gli occhi scialbi del commesso che, nel frattempo, ciondolava la gamba sinistra, disegnando strani cerchi sul pavimento polveroso.
” Cioè se non te la senti non fa niente, è che stai sempre a leggere” lo sentì biascicare, ed avrebbe voluto riprenderlo, dirgli che non si inizia mai una frase con un cioè.
Quasi a contrastare, inavvertitamente, il suo aspetto raddrizzò la schiena, sempre un pò ingobbita, trattenendo il libro con la mano sinistra sul petto, e lisciandone le pagine con la destra, lasciando che l’elastico rosso imprimesse la sua memoria sui polpastrelli.
“Oddio, che ti devo dire, lo leggerò, di questo ne sono certa, ma da qui a pensare di essere in grado di farne una recensione…”
“Vedrai” disse quello, senza smettere nemmeno per un istante di masticare stancamente e di fare cerchi con il piede, sul pavimento ” sarà un gioco da ragazzi, per te, non te lo faccio nemmeno pagare. Si dai, portatelo così”.
“Vorrei ben dire” rispose quella, piccata ” sto facendo un lavoro al posto tuo, e dovrei anche pagare il libro? E poi, scusa” e girò stizzosamente la copia dello strano libro che continuava a stringere tra le mani ” io, qui, non vedo nessun prezzo, quindi dovresti ringraziarmi perché ti sto facendo un favore”.
Improvvisamente lo scialbo commesso alzò gli occhi, e lei vide che erano diventati neri, neri e profondi e la fissò, quasi a scavarla dentro ” ne sei proprio sicura? Sei proprio sicura che il favore TU lo stia facendo a me?”.
Poi, così come era accaduto, tornò quello di sempre. Si rimise a trascinare stancamente le sue misere ossa verso il bancone, fece finta di spolverarlo e rumoreggiando più del solito con la sua boccaccia, masticando quell’infausta gomma, che ormai doveva essere diventata più dura d’un sasso, non si degnò nemmeno di alzare lo sguardo per rispondere al frettoloso saluto che aveva appena seguito la precipitosa uscita della ragazza.
Il sole era ancora alto, nel cielo.
Da come si ostinava ad invadere quasi ogni angolo le venne da pensare che doveva essere mezzogiorno, o forse poco meno. Aveva molta strada da percorrere, prima di arrivare a casa e proprio quella mattina aveva deciso di andare a piedi.
Il manoscritto, tra le mani, iniziava a scaldarsi e sembrava richiamare costantemente la sua attenzione.
“Un attimo” si sorprese a dirgli. E poi sorrise tra se. Non avrebbe mai smesso la sua abitudine di parlare agli oggetti. Intravide una panchetta lontana, abbandonata sotto un albero che non faceva alcuna ombra, se non quella dello scarno tronco, e si incamminò, sapendo che sarebbe stata incapace di arrivare fino a casa.
La prima pagina la prese per mano subito, mentre il rumore dei passi si perdeva nel frinire delle cicale che si attardavano in questo strano ottobre estivo.
L’asfalto, che ondeggiava davanti ai suoi piedi, alle unghie rosse, laccate e curate, piccolo vezzo per combattere il suo senso di inadeguatezza, sembrava condurla con mano gentile ad accomodarsi. Il caldo si era messo a sedere. Improvvisamente si era alzata una piccola brezza leggera, come se il vento stesso fosse curioso di capire cosa potesse incantare tanto quegli occhi verdi.
Lei si trovò in piedi, davanti alla panchetta, incapace di distogliere lo sguardo da quelle parole, che sembrano averla rapita e portata in un posto lontano. Il movimento degli occhi e l’assenza di spostamenti delle mani, strette, come quelle dei bimbi, intorno ai fogli, lasciava intuire un costante ritorno su alcune frasi e passaggi. Quasi come se si volesse accomodare, trovare un posto morbido. Come quando d’estate amava andare al mare, a mezzogiorno, poggiare il telo sulla sabbia bollente e scavare un posto che avesse le pieghe del suo corpo e l’avvolgesse con un calore per altri insopportabile.
L’urto della panca contro le sue ginocchia, sotto la stoffa della gonna, le fece capire di essere arrivata. Senza lasciare quelle pagine, ma trattendole con la mano sinistra, lasciò scivolare la borsa dalla spalla destra, senza seguirne il percorso.
Piegò il ginocchio destro, appoggiandolo sulla panca infuocata, ruotò leggermete il corpo e, nel farlo, lasciò che la gamba sinistra salisse, ad incrociarsi sotto la destra, come piaceva a lei.
Senza lasciare un attimo il libro, lo strinse con l’altra mano e lo avvicinò al viso, incassando un po’ la testa nelle spalle ed accomodandosi in modo da poter restare ferma per le ore che le sarebbero scivolate davanti senza permettere a nulla di frapporsi tra lei e quelle parole.
Perché lei già sapeva che il suo pomeriggio non sarebbe diventato sera, se non davanti all’ultima parola di quelle pagine.
Le ore si avvicendarono ora lente, ora veloci, provarono a distrarla, a ronzarle intorno, a disturbarla.
Mandarono messaggeri di ogni tipo. Api rumorose, formicolii delle gambe, ragnetti impertinenti.
Ma ogni cosa che si avvicinava alla ragazza restava stupita, interdetta, e si allontanava, piano, per non disturbarla.

“Lei era lì. Incantata.Immobile in mezzo alla stanza”.

La danza di quelle parole le tornava nella mente e non capiva.
Non capiva se stava leggendo se stessa, se leggeva un sogno, se stava sognando o se qualcuno, in quella libreria l’aveva osservata talmente tanto a lungo da sapere perfettamente quali erano le parole che avrebbe voluto leggere un giorno, in un libro.
Si andava componendo, nella sua testa, un ritmo strano. Una canzone che si apriva con ogni capitolo nuovo, un ritmo antico, sconosciuto,del quale , tuttavia, conosceva i tratti.
Come quando da ragazza, al conservatorio, le assegnavano un brano nuovo dicendole che era un tempo conosciuto, che variavano, in fondo, solo le note.
Ma lei sapeva bene che sono le note, a fare la differenza. Eppure saper riconoscere i battiti di fondo permette al cuore di adeguarsi, di fermarsi, di regolarsi.
Ecco si.
Questo stava accadendo.
Come un metronomo antico il cuore riconosceva il ritmo, ci si adattava dentro e smetteva di sentire i rintocchi per diventare un tutt’uno con quelle parole.
Una goccia di sudore le stava scivolando lungo la schiena, rotolava tra le scapole magre e forse un pò troppo sporgenti e si depositata nella curva che incontrava l’orlo della gonna. Ma nulla sembrava distoglierla. Gli occhiali erano scivolati sul naso, fin quasi sulla punta, faceva fatica a trattenerli, ormai. Il caldo le aveva sciolto i sensi. Era il suo elemento. Lei si muoveva, nel caldo. E adesso era come narcotizzata dalle parole che leggeva.
Più andava avanti, nella lettura di quelle, più,nella sua testa, se ne creavano di nuove. Avrebbe voluto fermarsi, segnare alcuni passi, trascrivere alcune frasi. Ma aveva l’urgenza di leggere, di capire dove la stesse portando, quel pomeriggio, quel racconto, quello strano libro.

“Come se d’un tratto la musica avesse smesso di suonare lei si fermò, chinò lievemente il capo, socchiuse gli occhi e lasciò che un sorriso disegnasse sulle labbra un delicato sapore di gioia innocente.”

Una lacrima le scese lungo la guancia, a disegnare il contorno del viso, si soffermò sullo zigomo e andò a posarsi all’angolo delle sue labbra invadenti.
Non ci volle molte perché altre, scoperto il gioco, seguissero la prima, si avvicendassero sullo scivolo del volto e si spingessero più giù, a scoprire nuovi spazi.
Una, più testarda delle altre, si spinse su quei fogli e, allargandosi in un tenue ocra scuro, disegnò un piccolo cerchio dove si fermarono gli occhi della ragazza.
Improvvisamente lei capì di dover respirare.
Si accorse di aver smesso di farlo.
Tirò su col naso, in modo scomposto, quasi rumoroso, spinse gli occhiali indietro, riavviò i capelli e, lasciando per la prima volta il libro, dopo averlo poggiato con cura sulle gambe, che aveva, nel frattempo, riportato a terra, poggiò le mani di lato, tiró su la schiena e inspirò, profondamente, tutta l’aria che riuscì a tirar dentro.
Bruciò quasi da far male, tanto che aveva trattenuto il respiro.
Però aveva un sapore nuovo.
Di vaniglia e caffè.
E di nuovi orizzonti.
Senza nemmeno starci a pensare chinò rapidamente il busto sulle gambe, sentendo le pagine premere sulla pancia, prese la vecchia borsa di tela e, rialzandosi e afferrando al volo il libro, iniziò a percorrere la vecchia strada verso la libreria.
Dalle ombre che si disegnavano tra le case non doveva essere passato molto tempo, forse solo qualche ora, o giù di lì, ma la sera era lontana dallo scendere a cambiare la tavolozza dei colori.
Voleva fare in fretta, aveva bisogno di parlare con quel ragazzo, chiedergli qualcosa di più, chi aveva scritto il libro, il titolo. Cose così, insomma.
Arrivò trafelata e affannata e nemmeno si accorse della signora che la aspettava, dietro il bancone bianco, nuovo e tirato a lucido.

Rimase così, smarrita e immobile .
E non riuscì a dire nulla.
Le parole le morirono sulle labbra, mentre gli occhi vagavano alla ricerca della polvere nota, degli scaffali cupi, dei dorsi dei libri che lei conosceva così bene.
Un antipatico pavimento in linoleum non rimandava alcun rumore, dai suoi passi, e lo stereo diffondeva una antipatica musica commerciale.
Non c’era poesia, nell’aria.
Non c’era, semplicemente, nulla.

” Posso aiutarti, Anna?”

La voce della donna suonò come uno schiaffo. Le sue parole raggiunsero lo stomaco come un pugno e lei dovette fermarsi a prendere respiro.

Fu come dover re-imparare a respirare.

E, ad un tratto, ancora quel profumo di vaniglia e caffè .

La stanza tornò polverosa, silenziosa.
Iniziò a percepire, nell’aria, una presenza nota.
Lo sentì arrivare. Sentì il fruscio di un corpo che smuoveva l’aria. Ed era certa che non ne avrebbe riconosciuto le sembianze.
Ma sapeva già dove guardare e sapeva che avrebbe trovato due occhi scuri, ad attenderla.
Sentì una voce, arrivare da dietro:
” Ora dimmi, Anna, sei ancora convinta di avermi fatto un favore?”

Si tuffò in quegli occhi con la sicurezza di un risultato afferrato. Seguì una breve pausa; il tempo di un respiro prima di esprimere un desidero davanti ad una stella cadente intercettata all’improvviso, inaspettatamente.
Lei lo guardò, dritto nel cuore…..

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